Per le famiglie la ripresa è lenta ma le aspettative sono in miglioramento. Tassi a zero, case e depositi liquidi polarizzano gli investimenti.
È stata presentata venerdì a Torino l’Indagine sul Risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani 2016 del Centro Einaudi e di Intesa Sanpaolo: “Tassi bassi e volatilità, si ritorna al mattone”, un resoconto basato su interviste effettuate da Doxa fra gennaio e febbraio 2016 a 1.011 famiglie detentrici di conto corrente bancario e/o postale. All’interno della famiglia è stato intervistata la persona più informata e interessata agli argomenti trattati.
Il campione selezionato è rappresentativo per classi d’età, professioni, titoli di studio e zone geografiche. L’Indagine, che permette confronti temporali dal 1983 ad oggi, affronta ogni anno un tema monografico: nel 2016 l’attenzione si è concentrata sulle scelte di investimento in condizione di tassi di interesse bassi o nulli.
La sintesi della ricerca
Famiglie: ripresa lenta, ma aspettative in miglioramento. La crisi appare ormai alle spalle, ma è diffusa la percezione che la perdita di reddito disponibile non sia stata completamente recuperata: per conseguenza, le spese nel 2015-2016 hanno continuato a essere improntate alla sobrietà.
Se la quota delle famiglie del campione che dichiarano un reddito insufficiente si è stabilizzata nel 2016 intorno al 17 per cento senza ridursi, è invece sulle aspettative che si registra il vero miglioramento. Fino al 2015, il 50 per cento degli intervistati giudicava probabile un peggioramento imminente delle proprie condizioni economiche. Nel 2016 le proporzioni sono opposte: il 60 per cento giudica infatti imminente un miglioramento. Non solo: sempre nel 2016 una quota tra il 20 e il 22 per cento del campione pensa non solo di mantenere, ma di aumentare le spese per i figli e di espandere quelle per la salute e per l’acquisto dei beni durevoli, rinviato negli anni passati. L’evoluzione demografica dell’ultimo decennio stabilizza il risparmio ai livelli del 2012.
La crisi economica ha accelerato l’impatto dell’invecchiamento della popolazione sulla distribuzione del campione per condizione lavorativa: in otto anni, la quota dei pensionati sul campione è aumentata di oltre 10 punti percentuali, con una paritetica riduzione sia dei lavoratori indipendenti che dei dipendenti. Tenendo conto della riduzione, con l’avanzare dell’età, della capacità di risparmiare, il cambiamento demografico impatta negativamente sul risparmio. Quando la crisi iniziò, la numerosa generazione dei baby boomer era in attività, oltre che al culmine di carriere che avevano visto crescere costantemente il reddito.
Dopo sette anni, la stessa generazione ha cominciato a lasciare il lavoro, qualche volta con pensioni inferiori alle aspettative; in qualche caso ha perduto l’occupazione senza trovarne un’altra equivalente. Le generazioni di rincalzo, ossia le coorti che avrebbero dovuto entrare nel mondo del lavoro, hanno avuto meno occasioni.
Pertanto, nel 2016 si è stabilizzata l’incidenza dei risparmiatori (40 per cento) sul campione, mentre si è lievemente ridotta la quota di reddito risparmiata (9,6 per cento): entrambe le percentuali confermano, nella media campionaria, i livelli sui quali giacevano dal 2012. Lo “smottamento economico” della classe media (ossia della parte centrale della distribuzione del reddito, del risparmio e della ricchezza) che era stato messo in luce nell’Indagine 2015, è un fenomeno strutturale che influenza la parte centrale di tutte le distribuzioni, e quindi incide sia sulla velocità media di ripresa, sia sulla quota media di risparmiatori, sia sul reddito destinato al risparmio, benché in condizioni congiunturali migliorate.
Si risparmia per far fronte alle incertezze. Il risparmio per i figli supera sempre quello per la casa. Le aspettative pensionistiche continuano a ridimensionarsi, ma si risparmia troppo poco per la vecchiaia. La mite ripresa, unita alla volatilità dei mercati finanziari e alla esiguità dei rendimenti, sono alla base della crescente motivazione “precauzionale” del risparmio (58,3 per cento, in aumento di 10 punti). Aumenta un po’ (da 8 a 8,5 per cento) il risparmio per la casa, ma si conferma il superamento del risparmio fatto per i figli (17,1 per cento) rispetto a quello accantonato per il mattone. Il rapporto tra le due motivazioni era invertito prima della crisi, quando il risparmio per la casa precedeva quello per i figli.
Il risparmio previdenziale è ancora insufficiente. È ancora piuttosto bassa, in relazione ai bisogni potenziali, l‘intenzione di risparmiare per la vecchiaia (14,1 per cento). Ciò accade nonostante sia diffusa una corretta percezione della riduzione delle prestazioni pensionistiche future rispetto a quelle godute dalle generazioni precedenti: il saldo tra l’attesa di un reddito sufficiente o insufficiente al momento di andare in pensione scende infatti dal 13 al 6,7 per cento (era pari al 29,8 per cento prima della crisi). Solo l’11 per cento del campione dichiara di avere sottoscritto qualche forma di previdenza integrativa, relativa al II o al III pilastro previdenziale. La percentuale è in particolare piuttosto bassa tra coloro che si trovano all’inizio della carriera contributiva.
La difesa del capitale è sempre la priorità. Nonostante si sia ridotta la preoccupazione di perdere il capitale – segnalata indirettamente dal fatto che la quota di intervistati non interessati all’economia (53,5 per cento) sorpassi nuovamente quella degli interessati (46,5 per cento) – quando investono i capifamiglia riferiscono come priorità assoluta delle scelte la «sicurezza» di non perdere il capitale (58,3 per cento nel 2016, 52 per cento nel 2015 e appena il 23,8 per cento nel 2011). Solo a seguire vengono il rendimento (15 per cento), la liquidità (14 per cento), nonché l’apprezzamento del capitale nel lungo termine (7 per cento).
Il risparmio gestito si fa avanti, sottraendo spazi agli investimenti diretti, sui quali è sempre più complicato assumere decisioni. Il tradizionale investimento con il quale gli italiani hanno difeso i risparmi, traendo peraltro buoni rendimenti, è il titolo obbligazionario, con i titoli di Stato in cima alle preferenze. Tuttavia, da metà del 2015 le condizioni sono cambiate. Con l’obiettivo di contrastare la deflazione, la BCE acquista obbligazioni con operazioni di mercato: ne deriva che questi titoli aumentano di prezzo, mentre scende il loro rendimento. Tale manovra è favorevole ai possessori di obbligazioni comprate in precedenza, ma ha ridotto a circa l’1 per cento o meno ancora il rendimento medio dei rinnovi e dei nuovi acquisti di titoli di Stato. È comprensibile, pertanto, la riduzione del possesso di questi strumenti, che passa dal 21,7 per cento del campione nel 2012 al 14 per cento nella rilevazione dei primi mesi del 2016.
A fronte della riduzione dei possessori di obbligazioni, l’Indagine del 2016 segnala un aumento delle preferenze per gli strumenti del risparmio gestito. Nel corso del 2015 i patrimoni complessivamente gestiti passano da 1,59 miliardi di euro a 1,83 miliardi (Assogestioni). Il 24 per cento degli intervistati dichiara di seguire questa opzione per «poter affidare i propri risparmi a esperti e non pensarci più, semplificandosi la vita»; per il 21,9 per cento degli investitori, con il risparmio gestito si possono avere rendimenti migliori rispetto al «fai da te». Si riduce nel tempo il fenomeno del via-vai dagli investimenti gestiti, che diventano veri compagni di viaggio di lungo termine. L’incrocio tra la priorità della sicurezza e l’estrema volatilità dei mercati azionari, che in ultima analisi non crescono più e sono privi di una direzione dalla fine del 2014, ha accentuato la disaffezione verso il mercato azionario da parte del campione. Solo il 5,3 per cento dichiara di aver comprato e/o venduto azioni negli ultimi cinque anni, una quota che è in declino costante dal 2003, quando era del 31,9 per cento.
I tassi a zero guidano la preferenza per la liquidità, ma la loro persistenza potrebbe preludere a cambiamenti delle preferenze degli investimenti, sacrificando la liquidità ma non la sicurezza. Poiché i rendimenti delle attività meno liquide sono quasi a zero, la quota di patrimonio detenuto in forma liquida sul conto corrente bancario è alta. Quasi un intervistato su 5 del campione generale (18,4%) mantiene liquide tutte le proprie disponibilità, il 9,1% più della metà e un altro 9% oltre il 30%. La persistenza dei tassi a zero potrebbe tuttavia preludere proprio al sacrificio della liquidità nella ricerca di investimenti alternativi, come quelli immobiliari.
Tassi bassi e volatilità, si ritorna al mattone
Un extra sondaggio di 567 piccoli investitori sugli impieghi del denaro quando i tassi sono a zero. Innanzitutto, le condizioni di tassi di interesse nulli appaiono singolari per i piccoli risparmiatori, perché si verificano per la prima volta dal 1959: non c’è quindi memoria né esperienza di questo tipo di mercato. In secondo luogo, la guidance della BCE prevede che il contenimento dei rendimenti durerà fino a quando sarà necessario contrastare la deflazione. In terzo luogo, i tassi a zero e minimi riguardano sia i rendimenti degli attivi finanziari (come obbligazioni e depositi), sia il costo del capitale dei passivi finanziari (come gli interessi sui mutui e sui prestiti in generale). A partire da queste considerazioni, nel 2016 l’Indagine è stata arricchita da un supplemento di campionamento su 567 risparmiatori fra i 29 e i 55 anni che detenessero anche qualche forma di investimento. Attraverso la Doxa, è stato sottoposto loro un diverso questionario, volto a sondare i comportamenti di investimento nella persistenza del clima di deflazione e di interessi nulli o minimali, con particolare riguardo alla propensione al passaggio dagli investimenti finanziari a quelli reali, come le case.
Con i tassi zero, case e depositi liquidi polarizzano gli investimenti. Il campione ha fornito indicazioni chiare. Posti di fronte al caso degli interessi a zero (o quasi) per più anni, gli intervistati hanno risposto con intenzioni di comportamento polarizzate, in quanto concentrate essenzialmente su due scelte: la scelta della liquidità (che riguarderebbe il 32 per cento degli investitori) e la scelta dell’investimento immobiliare (il 29 per cento considererebbe l’acquisto di una casa per sé e il 20 per cento l’acquisto di una casa da dare in affitto). I primi sarebbero mossi dall’intenzione di non perdere né guadagnare denaro con investimenti più rischiosi e dall’aspettativa che i tassi a zero prima o poi finiranno, e quello sarebbe il momento giusto per riprendere a investire. I secondi, invece, manifesterebbero la propria preferenza per un potenziale acquisto immobiliare, mossi però non solo da variabili economiche, ma anche da bisogni rimasti irrisolti o semplicemente dall’ambizione, sempre viva negli italiani, di una casa migliore di quella che si possiede. A differenziare i due gruppi di investitori, ai poli opposti delle possibili scelte (totale liquidità e totale illiquidità), sono prevalentemente l’aspetto del reddito e il possesso di risparmi accantonati superiori a un anno intero di redditi netti. Questi ultimi sono fattori che aumentano la propensione all’investimento reale.
Le scelte più rischiose e alternative sono marginali. Solo una parte ridotta del campione di piccoli investitori, l’8 per cento, reagirebbe ai tassi a zero aumentando l’esposizione rischiosa, ossia comprando azioni, cambi e derivati. Si tratta di un atteggiamento coerente con la teoria economica: infatti, il cambiamento delle combinazioni di rischio e rendimento possibili sul mercato e, in particolare, l’abbassamento dei rendimenti su tutto lo spettro dei rischi non cambia la disponibilità a perdere parte del denaro investito, poiché questa variabile non dipende dal mercato, bensì dal reddito, dal patrimonio e dalla psicologia del singolo investitore.
Cambiare «habitat» di rischio solo perché cambiano le condizioni di mercato può facilmente rivelarsi una mossa scorretta, ex post. Infine, il 12 per cento acquisterebbe oro e preziosi e il 4 per cento comprerebbe opere d’arte. La ricerca di rendimenti alternativi in queste classi di investimento è minimale e mossa da contesti economici e comportamentali diversi. Chi si rivolge all’oro evidenzia un fondo, anche se non ben espresso, di paura e sfiducia generale nei mercati finanziari («dopo gli interessi a zero, chissà cosa potrà accadere?»). Tra l’altro, questo mood tende a riaffiorare in tutte le classi di risparmiatori, perché alcuni indizi rivelano che, mentre le persone percepiscono il calo dei prezzi (a eccezione dei servizi sanitari e di poche altre cose, come le bollette domestiche), è altresì diffusa la sensazione che i prezzi, quando salgono, lo facciano più di quanto viene misurato dalle statistiche ufficiali. Chi si rivolge all’arte (4 per cento) ha in genere un patrimonio complesso e ben diversificato e coglie l’occasione dei rendimenti a zero per acquistare un’opera d’arte essenzialmente perché il costo opportunità si è momentaneamente ridotto.
Le case: il mercato che gli italiani conoscono meglio. I piccoli investitori si rivolgono alle case anche perché questo è il mercato dei beni di investimento che essi direttamente conoscono meglio, e al quale probabilmente sono più interessati. L’informazione è pur sempre un elemento che mitiga il rischio degli investimenti, visto che rende più consapevoli le scelte in proposito. Ben il 46 per cento degli intervistati dichiara di conoscere il mercato delle case e di informarsi regolarmente sui suoi prezzi. Dietro al mercato immobiliare si collocano, distanziati, il mercato obbligazionario (che è seguito dal 33 per cento del campione), poi la Borsa (24 per cento) e il mercato dell’oro (19 per cento).
La ricerca delle case corrisponde anche a una ricerca di rendimenti. Tornando alla propensione all’acquisto di immobili, chi vi si vorrebbe avvicinare (e non ha ancora deciso) ha un profilo chiaro. In generale, ha da parte investimenti liquidi o liquidabili pari a più di un anno del suo reddito (48 per cento). Ha realizzato, inoltre, che il mercato dei beni d’uso quotidiano è deflattivo, concorrendo a schiacciare i rendimenti di lungo termine del risparmio investito in forme finanziarie. Ciò però non è compatibile con l’aspirazione a ottenere dai propri investimenti, in media, un profitto medio annuo del 2,6 per cento nei prossimi cinque anni. Ecco dunque che tra le motivazioni per cui “acquistare un immobile potrebbe essere vantaggioso” primeggiano considerazioni economiche, ossia la convinzione di investire in un “bene di riferimento”, che conserva il suo valore nel tempo (25 per cento), seguito dalla possibilità di “approfittare del momento di prezzi bassi” (17 per cento) e dal fatto che il reddito dell’immobile, ossia l’affitto incassato o risparmiato, è superiore a quanto può offrire la banca o un’obbligazione (13 per cento). Il 19 per cento, inoltre, pensa che i prezzi delle case aumenteranno nei prossimi anni e il 14 per cento mira, così facendo, ad approfittare di buone e singolari condizioni sui mutui.