Rialzo dei tassi: i possibili effetti sui mercati azionari

In questo momento è opportuno pensare all’impatto di un rialzo dei tassi di interesse sulle valutazioni azionarie e, in particolare, sui vari settori.

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Lo sconquasso è arrivato ai principi di febbraio quando, dopo un anno ai minimi storici, la volatilità è aumentata di quasi il 100% in un giorno, con un impatto istantaneo (e doloroso) sulle classi di attivo più sensibili a questi sbalzi e, nel corso della settimana seguente, sui mercati azionari. I primi a crollare sono stati i prodotti a “bassa volatilità”, un’area esoterica del mondo degli investimenti in cui si negoziano derivati legati all’andamento del VIX.

L’uso di questi prodotti ha consentito di realizzare rendimenti costanti negli ultimi anni ma il rischio che gli stessi comportano o non è stato capito o è stato ignorato. Il risultato, nell’arco di appena due giorni, è stato la perdita di quasi tutto l’investimento e il ritiro dal mercato dei prodotti da parte degli operatori che li avevano promossi. Si stima che siano stati bruciati addirittura 5 miliardi di dollari.

Quando la volatilità è schizzata verso l’alto agli inizi di febbraio, sono state attivate le vendite, che hanno accentuato la pressione verso il basso dei mercati azionari nel corso della settimana seguente.

Le vendite degli ETF sono seguite a ruota e in men che non si dica sono stati azzerati tutti i guadagni messi a segno dalle azioni europee negli ultimi 12 mesi. Il mercato è sceso di oltre il 10% e la caduta è stata ufficialmente definita una “correzione”, richiamando alla memoria le giravolte del 2013, con il c.d. “taper tantrum”, e la crisi dei debiti sovrani europei del 2011.

Ma cosa significa tutto questo?

In un certo senso gli investitori hanno avuto vita facile negli ultimi anni. Le prospettive economiche favorevoli, un’inflazione limitata, i bassi tassi di interesse e il quantitative easing hanno nel complesso prodotto un effetto soporifero. I mercati sono saliti, le valutazioni sono diventate sempre più elevate e nessuno si è preoccupato troppo di come e quando sarebbero cambiate le cose.

Ma ora la situazione è cambiata. I tassi di interesse stanno risalendo, grazie all’impulso della Federal Reserve e della Banca d’Inghilterra che hanno ritoccato verso l’alto i propri tassi di riferimento. La BCE dovrà seguire.

Gli acquisti di titoli da parte di queste tre banche centrali diminuiranno. Inoltre, l’inflazione sta cominciando a fare capolino, prima nei prezzi delle materie prime, poi nei salari e, prima o poi, nei prezzi che paghiamo per i beni. Tutto ciò non è necessariamente un male; stiamo semplicemente ritornando ad un regime che prima era la norma.

La buona notizia per il medio termine è che i tassi di interesse non sono abbastanza alti per l’attuale livello di crescita del PIL in Europa.

A patire le pene nel breve termine saranno quegli investitori spaventati dalla tendenza del Bund verso un rendimento dell’1% (o, se è per questo, dalla tendenza dei titoli di stato americani decennali verso un rendimento del 3%). Questi dati non fanno particolarmente impressione e saremmo sorpresi se fossero tali da compromettere la ripresa.

Tuttavia, sono sufficienti a creare qualche malessere nei mercati, dove la liquidità affluisce da un po’ di tempo a questa parte nelle strategie di tipo momentum, particolarmente valide in fase di tassi di interesse in ribasso. Queste operazioni dovranno essere smontate.

I tassi di interesse stanno salendo. La domanda di beni e servizi si sta rafforzando in tutta Europa. Gli investimenti, depressi per anni, stanno ritornando.

Anche la Spagna, che ha dovuto sopportare una recessione e un’alta disoccupazione, è disposta a spendere di nuovo per soddisfare la domanda. Di conseguenza, le previsioni di crescita del PIL sono state riviste costantemente al rialzo per tutto il 2017. I tassi di interesse sono sensibili a queste variabili e reagiranno.

Ci sono altri motivi per cui i tassi di interesse saliranno. Il primo è che un giorno dovremo affrontare una nuova recessione. I banchieri centrali lo sanno e, per tutta risposta, dovranno tagliare i tassi di interesse.

Poiché al momento non c’è nulla da tagliare, è necessario che questi ultimi risalgano prima di poterli riabbassare. Il secondo è che la diminuzione degli acquisti di obbligazioni con il quantitative easing rimuove dal mercato un compratore di ultima istanza.

In assenza di altri mutamenti, per riportare la domanda e l’offerta in equilibrio si dovrà offrire ai compratori rimanenti un incentivo maggiore sotto forma di tassi di interesse più elevati. Infine, dopo anni caratterizzati dalla preoccupazione per la deflazione, sono riemerse le prospettive inflazionistiche.

Dopo la crisi finanziaria globale si era indebolito il potere contrattuale dei lavoratori europei. Una crescita dei salari di appena il 2% ha consentito ai consumatori di tenere a malapena il passo in termini reali. D’altro canto, ultimamente abbiamo assistito ad un forte aumento di imprese che denunciavano carenza di manodopera.

Presumibilmente c’è un’assenza ancora più pronunciata di manodopera qualificata. Date le circostanze, o le aziende scoprono una grossa riserva di lavoro inutilizzata o aumentano i salari. Noi siamo pronti a scommettere su quest’ultima alternativa. Infatti, non molto tempo fa il sindacato tedesco IG Metall ha ottenuto un aumento salariale del 4% per i prossimi due anni.

Visto che le società cercheranno di compensare questo aumento dei costi con un aumento dei prezzi, le conseguenze in termini di inflazione dovrebbero essere chiare.

In passato i mercati si preoccupavano che i banchieri centrali non sarebbero stati abbastanza solleciti ad aumentare i tassi di interesse a fronte di un rialzo dell’inflazione, per poi alzarli più rapidamente per recuperare. L’inevitabile conseguenza di una tale manovra era la recessione. Il fatto che i banchieri centrali non abbiano dimenticato questo rischio è un altro motivo per cui i tassi di interesse devono salire.

Prima di farci prendere dallo sconforto, però, è opportuno considerare i tassi di interesse reali.

Non sono solo i tassi di interesse nominali ad essere importanti come strumento di misurazione delle condizioni finanziarie; anche i tassi di interesse reali sono importanti.

Le ultime manovre sono allineate al ritmo dell’inflazione, quindi non credo che sia ancora il caso di preoccuparsi del fatto che i banchieri centrali possano causare una recessione accidentalmente.

Come reagiranno i mercati azionari?

In questo momento è opportuno pensare all’impatto di un rialzo dei tassi di interesse sulle valutazioni azionarie e, in particolare, sui vari settori. Un aumento del tasso di attualizzazione degli utili futuri comprimerà i prezzi delle azioni e farà cadere il rapporto prezzo/utili.

D’altro canto, in un’economia globale in rapida crescita, non tutte le società sono uguali. Le imprese che vendono di più in periodi di crescita economica possono bilanciare le pressioni al ribasso sulle valutazioni incrementando gli utili. Queste imprese, in genere, tendono ad operare in settori sensibili al ciclo economico e, al momento, presentano anche un certo potenziale.

Dopo anni in cui la crescita degli utili è stata leggermente sottotono, molte azioni cicliche domestiche e le banche sono a buon mercato, apparentemente sulla scorta di aspettative che vedono il futuro invariato rispetto al passato recente.

Non è detto che andrà così. Con un aumento della domanda migliora anche il potere di prezzo. Per quanto ci riguarda, privilegiamo la combinazione di valutazioni interessanti e potenziale incremento degli utili.

Per contro, le società che non vedono aumenti di domanda per i loro prodotti in fase di crescita economica non hanno modo di bilanciare gli effetti di un tasso di attualizzazione più elevato. Molte di queste azioni sono anche costose, quindi vulnerabili a tassi di interesse più alti e all’inflazione.

Ovviamente, la situazione attuale è diversa dal passato. Stiamo emergendo da un periodo di interventi delle banche centrali nei mercati finanziari senza precedenti.

Ciononostante, in mancanza di tesi che dimostrino il contrario, è meglio evitare utility, beni di largo consumo e la sanità. I titoli dei settori finanziario, dei materiali e energetico sembrano molto più interessanti.

Confesso che non sappiamo cosa fare con i tecnologici: le aspettative di una crescita futura degli utili sono molto ottimistiche, e le valutazioni alte.

Anche il ritmo del cambiamento è importante. Ci vorranno pochi anni perché i tassi si normalizzino rispetto agli attuali bassi livelli.

Quindi, nonostante il panico che ha di recente caratterizzato i mercati azionari, non crediamo che un graduale rialzo dei tassi di interesse sarà sufficiente a compromettere la crescita economica.

Le massicce vendite di febbraio hanno mascherato la rotazione verso aree più sensibili all’andamento dell’economia cominciata qualche mese fa. Riteniamo che questa manovra ricomincerà, grazie al miglioramento degli utili.

Un altro aspetto delle vendite di febbraio è che sono stati coinvolti anche investimenti tradizionalmente sicuri come i titoli di stato.

Si è venduto di tutto: azioni, materie prime e obbligazioni. Un andamento molto diverso da quello degli ultimi anni, dove ogni shock spingeva gli investitori verso i titoli di stato.

A nostro avviso, questa è un’altra prova di un cambiamento nel regime di mercato e che le forze che deprimono i tassi di interesse si stanno attenuando.

Per concludere, c’è la consapevolezza della rapidità con cui il panico può prendere piede nei mercati azionari. Tale condizione potrà durare per un po’. Eppure il ritmo del cambiamento nel regime economico sarà molto più lento.

L’economia globale sta crescendo bene e in maniera sincronizzata. Quello che si vede al momento nel mercato è il ridimensionamento di un indebitamento eccessivo fondato su bassa volatilità e bassi tassi di interesse.

Questa tendenza è positiva e il risultato dovrebbe essere un’attività di investimento più ponderata e differenziata, qualcosa che da cui speriamo di trarre vantaggio in termini sia di posizioni lunghe sia di posizioni scoperte.

Commento a cura di Paul Casson, gestore Fondo Artemis Pan-European Absolute Return

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