In Italia, negli ultimi anni, abbiamo assistito alla rapida diffusione dei PIR, i Piani Individuali di Risparmio, strumenti di investimento a lungo termine destinati alle persone fisiche e volti a canalizzare il risparmio privato a favore delle piccole e medie imprese.
Come sottolineato di recente dal presidente della Banca d’Italia Ignazio Visco, le PMI italiane, in particolare le imprese più piccole (il 95% impiega meno di dieci addetti), mostrano una forte dipendenza dal credito bancario, con una incidenza dei prestiti bancari sul totale dei debiti finanziari pari al 66%, contro il 50% della media area euro e il 40% di Regno Unito e USA[1]. In Italia, negli ultimi anni, abbiamo assistito alla rapida diffusione dei PIR.
La capitalizzazione della nostra Borsa è inoltre la più bassa fra i grandi Paesi dell’Eurozona: appena il 35,7% del Pil contro il 61,5% della Germania, il 67,8% della Spagna e il 106,5% della Francia. Se consideriamo le società non finanziarie, siamo al 25% del Pil contro il 60% tedesco, il 70% di Francia e Gran Bretagna e addirittura il 125% degli Stati Uniti: appena 632 miliardi di euro di cui solo cui il 10% destinati alle 310 PMI[2].
Anche l’incidenza dei debiti di mercato, ossia delle obbligazioni, rimane ben al di sotto della media europea. Il nostro Paese, infatti, si attesta su 144 miliardi di euro, pari al 16% del totale dei debiti esterni delle imprese, percentuale in linea con quella della Germania ma inferiore alla media Ue (23%) e soprattutto alla Francia (37%), come confermano i dati BNL[3].
Se, da un lato, le PMI europee si trovano sempre più a competere in un contesto globalizzato, dall’altro la ricerca di finanziamenti rimane ancora spesso legata al Paese d’origine. L’assenza di un vero e proprio Mercato Unico dei Capitali ha rappresentato per diverso tempo un freno.
L’obiettivo di questo ambizioso programma europeo è stato quello di sostenere le PMI europee consentendo un più facile accesso a risorse finanziarie provenienti da investitori di tutta l’Unione Europea.
A questo proposito, la Commissione europea ha promosso lo sviluppo di forme di credito non bancario: piattaforme di prestiti, cessioni dei crediti commerciali, prestiti tra pari (peer-to-peer lending). Inoltre, si sono rafforzati il crowd-funding, le disponibilità di capitali informali nelle fasi di lancio (business angels) e il venture capital.
In Italia, negli ultimi anni, abbiamo assistito alla rapida diffusione dei PIR, i Piani Individuali di Risparmio, strumenti di investimento a lungo termine destinati alle persone fisiche e volti a canalizzare il risparmio privato a favore delle piccole e medie imprese.
Dopo il boom di raccolta che si è registrato nel 2017, sono emersi dei dubbi circa l’effettivo impatto di questo strumento sull’economia reale. Le somme raccolte, infatti, sono confluite prevalentemente su titoli emessi da aziende già quotate mentre quasi nulla è stato destinato alle imprese non quotate attraverso strumenti di private equity, private debt o venture capital.
Le novità recentemente introdotte dalla riforma dei PIR, ufficializzata con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del decreto 30 aprile 2019, prevedono l’introduzione di un vincolo del 3,5% delle somme destinate ai PIR all’investimento su PMI quotate all’AIM e un altro 3,5% in venture capital, riflettendo la volontà del legislatore di dare maggiore impulso allo sviluppo delle imprese di piccole dimensioni o di recente costituzione.
Va ricordato, però, che la platea di potenziali beneficiari di questa allocazione specifica all’interno dei portafogli PIR è pari a 200-250 aziende al massimo, su un totale in Italia di oltre quattro milioni di imprese e un milione di società di capitali.
Un’ulteriore misura, prevista dagli emendamenti del decreto legge Crescita estende le detrazioni fiscali previste per i PIR anche ai fondi ELTIF. Si tratta di veicoli di investimento che offrono agli investitori ampi profili di diversificazione e de-correlazione rispetto ai mercati finanziari, mentre permettono alle imprese beneficiarie l’accesso a risorse finanziarie indispensabili per il proprio sviluppo su un orizzonte temporale di medio/lungo periodo.
La possibilità di investire in una gamma molto ampia di strumenti finanziari (oltre i titoli di equity e debito), insieme alla struttura chiusa del fondo, rendono gli ELTIF un modo molto efficace per veicolare risorse a favore delle PMI.
Inoltre, l’estensione dell’agevolazione prevista anche ad investimenti indiretti (attraverso Fondi di Fondi di ELTIF) consente di aumentare l’efficacia di questa misura, permettendo la creazione di veicoli destinati agli impieghi (gli ELTIF) e la contemporanea esistenza di veicoli di raccolta, fondi tipicamente aperti anche ad investitori retail (i beneficiari dell’incentivo fiscale) e gestiti da società focalizzate sulla raccolta del risparmio.
Si potrebbe immaginare di essere più ambizioni, e portare ancora maggiori risorse alle imprese che ne hanno bisogno. In che modo?
Estendendo ad esempio le agevolazioni fiscali oggi disponibili per i PIR e gli ELTIF anche a nuove asset class (tra cui i bond di distretto e i nuovi basket bond, il private debt, il private equity e le forme di permanent capital) sfruttando tutte le opportunità degli strumenti finanziari oggi disponibili sul mercato.
Esperienze estere dimostrano come l’apertura a investimenti in private capital da parte di investitori istituzionali può contribuire in maniera significativa ad apportare risorse alle imprese. il risultato ottenuto dalla Francia in questo senso in pochi anni è stato straordinario:
I Piani francesi di risparmio azionario (“Plans d’Epargne en Actions” o PEA), antenati dei nostri PIR, sono stati introdotti presso gli investitori retail da oltre vent’anni.
Da un massimo di 7,3 milioni di PEA aperti nel 2000, a fine 2018 erano attivi in Francia 4,6 milioni di piani di risparmio azionario, di cui 75mila destinati alle PMI, con impieghi complessivi pari a 92 miliardi di euro (1,2 miliardi su PMI).
Sul fronte degli investitori istituzionali, le compagnie assicurative francesi a partire dal 2012 hanno iniziato ad allocare a strumenti di investimento rivolti alle imprese parte del proprio portafoglio. Nel solo 2016 hanno finanziato il settore produttivo per oltre 1.400 miliardi di euro, di cui il 37% investito in obbligazioni e il 17% in azioni. Il 56% di tale ammontare è stato destinato a imprese nazionali e quasi il 5% a piccolo-medie imprese.
I 63,5 miliardi di euro, corrispondenti a quest’ultima percentuale, si sono inoltre equi-ripartiti fra strumenti di debito (32 miliardi) e azioni (quotate e non quotate: 31,4 miliardi). Anche se rapportati alla diversa dimensione del settore assicurativo – ramo vita in Francia e in Italia, si tratta di cifre che non trovano riscontro nel nostro mercato nazionale che non supera i 3 miliardi di euro.
Creare le condizioni affinché, da un lato, gli investitori privati e istituzionali possano accedere a una pluralità di strumenti finanziari scegliendo i più adatti al loro profilo di rischio e dall’altro, le PMI possano effettivamente diversificare le fonti di finanziamento al di fuori del canale bancario è l’unica garanzia per ottenere un impatto significativo e duraturo sulla crescita del tessuto imprenditoriale italiano.
Commento a cura di Sergio Zocchi – October Italia
[1] Fonte : https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-governatore/integov2019/Visco-13.02.2019.pdf
[2] Fonte: Borsa Italiana, Borsa Share Capitalisation, 28 settembre 2018
[3] Fonte: Focus settimanale del Servizio Studi, 2 marzo 2018.