Le medie imprese italiane crescono e guardano con cauto ottimismo al 2016. E’ quanto emerge dall’indagine annuale di Mediobanca e Unioncamere.
Le medie imprese italiane crescono a ritmo più sostenuto rispetto alla manifattura, competono ad armi pari con la concorrenza tedesca e rappresentano un segmento in cui finalmente il Sud va alla stessa velocità del resto d’Italia.
Non ultimo, rappresentano una forma di capitalismo inclusivo, in cui vi è un’equilibrata distribuzione della ricchezza tra capitale e lavoro.
Questi alcuni degli elementi che emergono dall’Indagine annuale sulle Medie imprese industriali italiane, realizzata da Mediobanca e Unioncamere che fa luce sulla ripresa e sulla competitività di 3283 medie imprese manifatturiere italiane che assicurano il 16% circa del valore aggiunto e delle esportazioni dell’industria manifatturiera italiana.
Il post-crisi: si punta all’estero, ma si cresce anche in Italia
Le medie imprese hanno chiuso il decennio 2005-2014 con una crescita del fatturato pari al 35%, più del doppio rispetto alla manifattura (+14%). Neanche nell’acme della crisi (2009) il fatturato è sceso sotto i livelli iniziali (+9% sul 2005).
Risultati possibili grazie al forte presidio dei mercati esteri, dove le medie imprese hanno realizzato nel decennio una progressione del 63% contro il 42% della manifattura. Ma appare encomiabile anche la tenuta sul mercato domestico (+20% sul 2005).
Cresce anche la base occupazionale, +11% dal 2005, quando la manifattura ha dovuto invece ridurre gli organici del 6,5% sostenuta dalla forte espansione della ricchezza generata: +36% il valore aggiunto delle medie imprese sul 2005. Dal 2009 la struttura finanziaria si è inoltre irrobustita, con debiti finanziari in calo dal 93% dei mezzi propri al 69% nel 2014.
L’approccio all’estero: dove e come
La quota di vendite all’estero delle medie imprese è pari al 43% delle vendite, per i gruppi maggiori al 90%. Ma le medie imprese servono l’estero per il 39% delle vendite con esportazioni e per il 4% circa attraverso insediamenti produttivi che producono e vendono all’estero. Per i gruppi maggiori le esportazioni sono pari al 24% del fatturato, l’estero su estero al 66%.
Le medie imprese conciliano quindi un’elevata proiezione all’estero con il mantenimento di impianti e maestranze sul territorio nazionale. I mercati di sbocco sono quelli di prossimità fisica e culturale, soprattutto l’Eurozona (65% delle vendite all’estero), le Americhe (11%) e il resto d’Europa (9%). Il “coraggio” di aggredire i mercati lontani premia: le medie imprese ivi presenti segnano profitti maggiori.
La famiglia: un valore ma non un dogma
Il nodo del passaggio generazionale va affrontato con tempestività e obiettività: le medie imprese che lo hanno risolto sono più profittevoli, così come quelle che hanno realizzato una equilibrata apertura delle posizioni apicali a membri esterni alla famiglia.
Quando il sud marcia come il resto d’Italia
Tra il 2005 e il 2014 i principali settori delle medie imprese hanno messo a segno incrementi nel valore aggiunto. Tra i più performanti: pelletteria e accessori (+52%), l’alimentare (+50%), il chimico-pharma (+45%) e la meccanica (+42%).
Una piacevole e inedita sorpresa: le medie imprese del Mezzogiorno, sebbene meno numerose, vanno quantomeno alla stessa velocità di quelle italiane: valore aggiunto +34% sul 2005, esportazioni +85%, occupazione +10%. La dimostrazione che i progetti imprenditoriali di valore e radicati alle abilità locali possono fiorire anche al Sud.
La crisi ha premiato chi era in salute, condannato chi era debole
Il roe delle medie imprese ha segnato nel quinquennio 2010-2014 un livello medio del 5,5%, circa il 17% al di sopra della manifattura (4,7%). Il valore del 2014 (8%) è in crescita di circa 3,5 volte sul minimo del 2009.
La crisi ha generato una selezione severa: le imprese più ‘meritevoli’ (investment grade) hanno ridotto la propria rischiosità del 20% circa. Per esse la difficoltà del contesto ha rappresentato un’opportunità. Per contro, le medie imprese che sono entrate nella crisi già in relativo affanno hanno subìto un forte aumento della propria rischiosità, più che raddoppiata.
La crisi ha fatto da discriminante: la classe di merito delle imprese intermedie ha ridotto la propria numerosità del 20%, una parte è passata alla classe di merito migliore che è cresciuta del 9%, un’altra è stata attratta nella classe peggiore che nel decennio è cresciuta di oltre il 90%.
Le medie imprese e il sistema bancario
Le relazioni con il settore bancario rappresentano la componente prevalente dei rapporti finanziari. Se nel 2005 le banche alimentavano l’85,3% del debito finanziario complessivo, alla fine del decennio la copertura si è portata al 90,1%.
La raccolta obbligazionaria ha perduto peso attestandosi all’8,4% (contro il 12,2% del 2005). Il ricorso a forme di provvista estranee al canale bancario continua ad essere una chimera. Nell’ultimo biennio le medie imprese hanno comunque accresciuto la dotazione di mezzi propri per 3,5 miliardi di euro.
Il modello capitalistico inclusivo delle medie imprese
In sintesi, il modello delle medie imprese appare inclusivo e sostenibile: dal 1996 costo del lavoro e produttività sono cresciuti di pari passo (+55%), incrementando al contempo la base occupazionale (+27%) che si è al contempo riqualificata con una variazione dei white collars del +51% e una, minore ma comunque positiva – anche delle tute blu (+17%).
Esattamente il contrario di quanto osservato nelle maggiori economie occidentali nell’ultimo ventennio, afflitte da calo della produttività, riduzione della quota dei salari rispetto alla ricchezza aziendale e, negli anni più recenti, downsizing occupazionale.