Per quanto riguarda l’Italia, l’effetto diretto della minore domanda cinese è previsto inferiore a quello di altri partner europei.
Il rallentamento dell’economia cinese ha determinato in luglio e agosto una forte correzione sui mercati azionari e valutari. Tuttavia, gli aspetti reali della decelerazione del ciclo dei paesi emergenti erano già evidenti nei dati di produzione e di interscambio commerciale. In particolare, la dinamica del commercio mondiale di beni in volume (misurato dai dati del CPB) è apparsa in decelerazione già a partire dall’ultimo trimestre del 2014.
A tale fenomeno ha concorso l’erosione della competitività delle esportazioni cinesi, condizionata sia dall’apprezzamento dello yuan (+14% in termini effettivi reali dalla metà del 2014), sia dall’aumento del costo del lavoro.
Da un lato la politica monetaria ha operato per stabilizzare il valore dello yuan rispetto al dollaro, mentre le principali valute dei paesi asiatici si sono deprezzate consistentemente nei confronti di quella statunitense; ciò ha determinato una perdita di competitività della Cina verso i partner dell’area, accentuata dalla similarità della struttura di export di questi paesi.
Dall’altro, il costo orario del lavoro è notevolmente cresciuto negli ultimi anni e risulta ora significativamente più elevato rispetto ad alcuni paesi dell’area (India, Vietnam o Bangladesh ad esempio), riorientando verso questi ultimi le scelte di delocalizzazione delle produzioni labour-intensive delle imprese internazionali. La crescita dei redditi, d’altronde, rappresenta un obiettivo perseguito dalle autorità cinesi per incrementare la quota di consumi sul Pil e riequilibrare in tal modo un modello di sviluppo basato negli ultimi anni esclusivamente sulla crescita degli investimenti e sulla domanda estera netta.
La diminuzione della produzione ha comportato, da un lato una flessione delle importazioni di beni intermedi, dall’altro una minor domanda di materie prime, determinando un calo delle quotazioni e acuendo la crisi delle economie esportatrici di commodities (Russia e Brasile in primis).
Il rallentamento della crescita per i paesi emergenti è atteso trasmettersi alle economie avanzate, in misura tanto maggiore quanto più forti sono i legami commerciali bilaterali.
Per quanto riguarda l’Italia, l’effetto diretto della minore domanda cinese è previsto inferiore a quello di altri partner europei.
Al 2014, la quota in valore dell’export italiano verso la Cina ammontava a circa il 2,6% del totale, molto più contenuta rispetto a quella relativa ai tradizionali mercati di sbocco come Germania (12,6%), Francia (10,6%) e Stati Uniti (7,5%).
Tuttavia, il maggior peso della Cina nell’interscambio di questi ultimi (in particolare della Germania) determinerebbe un effetto negativo indiretto per l’Italia, attraverso il loro rallentamento ciclico associato a una minor domanda di beni italiani.