La bolla del corporate debt Usa

Dopo la Grande Crisi del 2007-8, il debito delle imprese statunitensi, il cosiddetto corporate debt, nel suo insieme è cresciuto enormemente.

economia corporate debt usa Nonostante i dati statistici indichino una presunta positiva ed effervescente crescita economica e occupazionale americana, non sono pochi gli esperti che paventano nuovi rischi finanziari negli Usa. Lo afferma anche la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea ai suoi più alti livelli. Dopo la Grande Crisi del 2007-8, il debito delle imprese, il cosiddetto corporate debt, nel suo insieme è cresciuto enormemente.

Si è passati dai 4.900 miliardi di dollari del 2007 ai 9.100 miliardi a fine 2018. Di questi, circa 5.000 miliardi sono sotto forma di obbligazioni.

In aggiunta a ciò, la grande parte di esse, pari a circa 2.300 miliardi, gode di un rating molto basso, la tripla BBB, appena sopra lo status di “junk”, di obbligazioni spazzatura.

Tecnicamente, a questo livello sono ancora considerate degne d’investimento, anche se devono offrire interessi alti per trovare acquirenti sul mercato. In questa situazione limite gli investitori istituzionali di solito ritengono di tenerle ancora nei loro bilanci.

Preoccupante è notare che, all’interno della bolla del corporate debt, i prestiti alle imprese già altamente indebitate siano fortemente aumentati, fino a raggiungere un ammontare stimato in 1.300 miliardi di dollari.

Oggi si teme che anche una limitata recessione economica, provocata, per esempio, dalla tensione sui dazi o da qualche riduzione nella crescita in una parte del globo, possa innescare una grave crisi in questo settore.

Di conseguenza, se fosse ulteriormente abbassato il rating, molte imprese dovrebbero pagare interessi ancora più alti e molte altre non avrebbero più accesso al mercato del credito.

A quel punto, anche gli investitori istituzionali dovrebbero disfarsi di detti bond, determinando un’esacerbazione della dinamica recessiva.

Questa situazione è stata resa possibile dal lungo periodo di tassi vicini allo zero, che hanno convinto molti ad avventurarsi in zone di maggiore rischio.

I tassi bassi hanno anche spinto le corporation americane a chiedere grandi prestiti che sono stati utilizzati per riacquistare le proprie azioni sul mercato. Ciò ha contribuito al boom delle quotazioni di Wall Street e, di conseguenza, ha giustificato anche la distribuzione di lauti dividendi.

Chiaramente il problema non è limitato agli Usa. Anche in Cina il corporate debt è esploso in modo prepotente e potrebbe presto presentare il conto. Lo stesso dicasi per l’Europa dove è cresciuto fortemente, anche se in quantità inferiore di quello americano.

Il problema vero è che il livello del debito, che è stato al centro della crisi finanziaria, è cresciuto. Secondo la BRI, il debito globale, quello privato, quello dei governi e quello delle imprese non finanziarie, nel 2007 era pari al 210% del pil, oggi supera il 240%.

Basilea afferma che la politica monetaria espansiva è stata necessaria per portare le economie dei maggiori paesi industrializzati fuori dalla crisi. Adesso però le banche centrali, in caso di un peggioramento della situazione economica, avrebbero pochi strumenti d’intervento.

In particolare esse temono la crescita dell’inflazione. Per contenerla si dovrebbe aumentare i tassi d’interesse, mandando, però, in tilt un sistema economico già molto stressato, in particolare il settore delle corporate bond.

La BRI reputa che un salvataggio da parte delle banche centrali potrebbe non essere sufficiente poiché negli ultimi 40 anni sono cambiati drasticamente i parametri di intervento.

Oggi le cause di una recessione sono più legate al settore finanziario, in particolare quando esso si rende protagonista di un’espansione non sostenibile.

Qualora vi fosse un aumento dell’inflazione, le banche centrali dovrebbero mettere dei freni alla politica monetaria, proprio mentre il settore finanziario si sta indebolendo. A quel punto l’effetto sul debito globale sarebbe difficilmente gestibile.

Molti temono, quindi, il rischio di un crac. Secondo la Bri neanche un eventuale crac risolverebbe il problema perché provocherebbe un automatico successivo aumento del debito.

Per l’istituto di Basilea vi sarebbero solo tre modi per ridurre il debito. Il primo sarebbe di favorire la crescita dell’inflazione mantenendo i bassi i tassi d’interesse, svalutando così anche il valore del debito.

Però, la storia ci insegna che tale processo porta a un crollo della crescita economica. Il secondo è la ristrutturazione del debito, cosa che comporterebbe dei sacrifici per gli investitori-possessori dello stesso. Il terzo e unico modo positivo è il sostegno dei settori dell’economia reale che fa aumentare la ricchezza prodotta e diminuire il rapporto debito/pil.

Non ci riteniamo di parte, ma è auspicabile che dalle prossime elezioni europee esca una governance più consapevole di dover superare la politica di austerità e sostenere, invece, investimenti e attuare anche una guida fiscale ed economica unica e autorevole.

Si tratta di una prospettiva tanto semplice quanto razionale. Purtroppo, però, per quanto ci riguarda in Europa continua a dominare la politica ossessiva dell’austerità prima di tutto. E’ sorprendente e poco incoraggiante vedere ancora una volta che certi banchieri siano più consapevoli dei governi.

Commento a cura di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

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