Uno studio pubblicato dalla BRI dice che il numero delle imprese zombie sarebbe cresciuto dal 4% degli anni ottanta al 15% del 2017.
Dopo la Grande Crisi del 2008 il fenomeno delle cosiddette imprese zombie è cresciuto enormemente a livello mondiale.
Sono così chiamate quelle imprese che, pur non essendo capaci di gestire bene le proprie attività e di realizzare un profitto minimo per svariati anni, restano sul mercato invece di essere dichiarate fallite o di essere acquisite da un’altra società.
E’ fisiologico che alcune imprese, per svariate cause, non siano in grado di continuare le proprie attività. E’ importante, però, che la loro percentuale sia contenuta e che le chiusure siano sostituite da nuove attività produttive. E’ il normale dinamismo dell’imprenditoria privata.
Quando, invece, le imprese zombie “galleggiano” per parecchi anni, esse finiscono col determinare pesanti e pericolosi squilibri nel mercato, generano una concorrenza eccessiva influendo negativamente anche sulla crescita delle imprese sane.
Nell’ultimo decennio ciò è stato reso possibile soprattutto dall’abbassamento, vicino allo zero, del tasso d’interesse da parte delle banche centrali e dalla conseguente propensione all’“azzardo morale” di accrescere il debito d’impresa.
I prestiti a basso tasso d’interesse hanno aiutato l’economia nei passati momenti più difficili, ma allo stesso tempo hanno anche mantenuto in vita aziende “decotte” che rischiano di essere una vera zavorra per la crescita economica.
Uno studio su “Corporate zombie”, appena pubblicato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) di Basilea, lo dice a chiare lettere.
Sono stati analizzati i dati, dal 1980 in poi, relativi a 32.000 imprese quotate in borsa di 14 Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Secondo tale ricerca si tratta in maggior parte di medie imprese.
I risultati ottenuti sono per lo più riferibili ai mercati cosiddetti anglosassoni, dove la percentuale delle imprese quotate è sicuramente maggiore rispetto all’Europa e al Giappone.
Nel nostro continente, infatti, e non solo in Italia, la stragrande maggioranza delle imprese sono le cosiddette piccole e medie imprese (pmi) che raramente accedono alla borsa.
Infatti, di tutte le pmi quotate analizzate dallo studio, il 50% appartiene a 4 nazioni anglosassoni, Usa, Canada, Australia e UK e il 28% a 9 Paesi europei. Di conseguenza, l’entità del problema sarebbe fortemente sottostimata.
Il numero delle imprese zombie sarebbe cresciuto dal 4% degli anni ottanta al 15% del 2017. Dallo studio succitato risulterebbe che negli Usa la percentuale delle imprese zombie di medie dimensioni è del 30%, in Gran Bretagna del 20%, mentre nell’Europa continentale sarebbe del 10-15%. E in Giappone solo del 3%.
Al riguardo, la situazione in Italia non può che essere molto preoccupante. E’ noto che la perdita di produttività del nostro sistema economico è da tempo assai pesante.
E questo è un fattore determinante per portare le aziende più deboli verso la “zombification”. In passato, in verità, altri studi avevano calcolato che il capitale assorbito dalle imprese zombie italiane era passato dal 7% del 2007 al 19% del 2013.
Nel 2019 anche la Banca d’Italia ha affrontato la problematica, Riconoscendo la gravità della situazione, però, metteva giustamente in discussione la metodologia di analisi usata. La Banca centrale, infatti, riteneva necessario considerare il parametro del profitto prima del calcolo dell’ammortamento.
Altrimenti si rischia di punire quelle imprese che hanno più investito nella modernizzazione degli impianti e anche di ingigantire il numero delle imprese zombie.
La ricerca della Bri puntualizza con maggiore precisione i parametri per classificare zombie un’impresa quotata: la mancanza di profittabilità per almeno due anni, cioè quando i profitti non sono sufficienti per pagare gli interessi sul debito, e la mancanza di aspettative di ripresa confermate dalla prolungata perdita di valore delle loro azioni.
Dette imprese sono solitamente più piccole, meno produttive, senza una crescita di capitale e di occupazione e senza investimenti importanti nella modernizzazione e nella ricerca.
Lo studio ha anche evidenziato che, nonostante ciò, riescono a ottenere temporaneamente sussidi e crediti agevolati. Il che crea oggettivamente distorsioni nel mercato.
Si calcola che delle imprese classificate zombie il 25% periscono in modo definitivo, mentre il 60% riuscirebbe a riprendersi rimanendo, però, estremamente debole e fragile. In ogni caso, lo studio proverebbe che un’impresa classificata zombie avrebbe avuto la probabilità di restare tale per il 70% negli anni ottanta e per l’85% nel 2017.
La tendenza crescente si è mantenuta anche negli ultimi anni prima della pandemia. Al riguardo, gli effetti del Covid19 potrebbero essere sconvolgenti.
Ciò rappresenta una sfida importante per le autorità di governo di tutti i Paesi impegnati a contenere l’impatto recessivo della pandemia nei confronti delle imprese, del pil e dell’occupazione e nella gestione dei fondi messi a disposizione per la ripresa economica.
Sarà un compito molto delicato: sostenere indistintamente tutte le imprese oppure avere il coraggio di concentrare le risorse su quelle realmente produttive?
Già nel 2018 l’Ocse aveva richiesto che i Paesi procedessero con decisione nell’eliminazione o almeno nella riduzione delle imprese zombie. La redditività di un’impresa dovrebbe essere il criterio portante per accedere ai fondi delle banche centrali e dei governi.
Per l’Italia la scelta può essere dolorosa, ma riteniamo ciò sia necessario per non ripetere gli errori del passato e per innescare nuove politiche per una vera rinascita economica e sociale del Paese.
Commento a cura di Mario Lettieri e Paolo Raimondi