Sui dazi l’America e la Cina giocano al gatto e al topo, e ci va di mezzo l’Europa.
Donald Trump ama i buoni affari, e anche Xi Jinping apprezza una decisa stretta di mano. Non è da escludere però che i due presidenti continuino a tendersi trappole da cui non uscirà nessun vincitore e gli investitori devono prendere in considerazione questa possibilità. In questo scenario l’Europa appare essere uno spettatore travolto dagli eventi.
Per molto tempo le relazioni tra gli Stati Uniti, che sono il massimo consumatore mondiale, e la Cina, che degli Stati Uniti è l’officina esternalizzata, si sono mantenute pragmatiche, ma non è più così: la guerra che oggi si combatte, a colpi di dazi e scontri verbali, è potenzialmente in grado di sconvolgere i mercati globali.
Tutto è iniziato nel 2018, quando gli Stati Uniti hanno imposto dazi sulle importazioni di pannelli solari, lavatrici, alluminio e acciaio. In seguito, nello stesso anno, Washington ha esplicitamente individuato nella Cina il proprio bersaglio principale. Un passo più grave è stata l’adozione, nel settembre 2018, di dazi punitivi del 10% su 200 miliardi di dollari USA di importazioni; il recente incremento di questo tasso al 25%, poi, ha aumentato il livello medio dei dazi statunitensi al 4,6%.
Si tratta di un livello che alcune economie emergenti utilizzano come barriera contro le importazioni a basso costo.
Ulteriori misure produrrebbero danni ancor più gravi. Washington sta valutando l’imposizione di un dazio del 25% su altri 300 miliardi di dollari USA di importazioni dalla Cina, nonché sulle spedizioni di automobili e parti di automobili effettuate da fornitori globali.
In tal modo gli Stati Uniti si collocherebbero nella medesima categoria di paesi protezionisti come il Venezuela, il Congo e il Mali (cfr. grafico).
L’amministrazione Trump deve decidere entro novembre 2019 se veramente desidera entrare in questo club.
Finora l’economia statunitense ha navigato in acque tranquille. L’insieme delle importazioni interessate dall’escalation del conflitto commerciale è ancora troppo esiguo per esercitare un impatto apprezzabile sul PIL o sull’inflazione.
I consumatori americani possono però farsi un’idea dei guai che li attendono, quando l’inflazione registrerà un’impennata dopo l’aumento dei dazi del 10 maggio. Si tratta, è vero, di un’eventualità tutt’altro che certa, giacché alcune imprese statunitensi possono abbandonare i fornitori cinesi per altri produttori a basso costo.
Tuttavia, l’incremento dei dazi sulle importazioni di automobili e parti di automobili, oltre che su importazioni cinesi finora sfuggite al severo sguardo di Donald Trump, muterebbe il quadro. In uno scenario avverso, ciò comporterebbe un calo del PIL statunitense pari a un punto percentuale.
La reazione passiva-aggressiva della Cina
Pechino è rimasta sorpresa dalla dissennata e disordinata iniziativa di Washington, ma ha intrapreso un’azione di controllo dei danni che ha evitato il peggio.
La seconda economia mondiale ha annunciato misure di ritorsione riguardanti importazioni statunitensi per 60 miliardi di dollari: in confronto, una cifra modesta.
A partire da giugno gli esportatori degli Stati Uniti saranno colpiti da un dazio medio del 14% per le spedizioni dirette in Cina, rispetto al precedente 7%.
Dal momento che in questo conflitto è il contendente più debole – le sue esportazioni verso gli Stati Uniti sono assai superiori alle spedizioni che dagli Stati Uniti le giungono – la Cina sta esaurendo le opzioni in termini di dazi supplementari.
Tuttavia la Cina non è affatto priva di mezzi per difendersi. In quanto massimo acquirente mondiale di titoli di Stato USA, Pechino potrebbe decidere di vendere una posizione significativa di questi titoli.
Tale misura si farebbe assai probabilmente sentire sui mercati finanziari, ma a nostro avviso l’impatto sarebbe limitato. In alternativa, la Cina potrebbe interferire nell’attività delle imprese americane in territorio cinese, per esempio ostacolando la possibile vendita di aeroplani di produzione statunitense a una compagnia aerea cinese.
Attualmente, le nostre stime indicano una riduzione potenziale del PIL pari a 0,3 punti percentuali all’anno, che consentirebbe comunque alla Cina di crescere a un tasso lievemente superiore al 6%.
Questo valore potrebbe scendere al di sotto del 6% nel caso di una guerra commerciale in piena regola. Allo stesso tempo, le misure adottate dalla Cina per stimolare l’economia possono compensare in parte l’impatto negativo.
Bisogna anche ricordare che negli ultimi anni il Paese ha ridotto la sua dipendenza dalle esportazioni. Anche alla luce della recente comunicazione della People’s Bank of China, l’inflazione in Cina non dovrebbe superare il 3%.
L’Europa: uno spettatore travolto dagli eventi
La ritorsione dell’Unione europea contro i dazi sull’alluminio e l’acciaio imposti dall’amministrazione Trump ha fatto lievitare il tasso di dazio ponderato sulle importazioni dell’UE di appena 0,03 punti percentuali.
Un’ulteriore escalation potrebbe aumentare il tasso medio dell’UE di 0,5 punti percentuali, fino a toccare il 2,3%: un livello ancora in linea con quello di un tipico paese industriale. In questo momento, in Europa, il conflitto commerciale è più dannoso per il sentiment di mercato che, direttamente, per il PIL o l’inflazione.
A un certo punto, tuttavia, l’indebolimento del sentiment finirà per incidere sugli investimenti e sulla spesa al consumo, riducendo la crescita.
Propensione al rischio in linea con un contesto solido
Quando due superpotenze economiche si scambiano dazi doganali come se fossero insulti, faremmo bene a preoccuparci.
Fortunatamente, assistiamo anche allo stabilizzarsi della crescita globale, a segnali di ripresa in alcune economie importanti, nonché al recente passaggio delle maggiori banche centrali a politiche monetarie più generose.
Ci troviamo quindi in una situazione differente da quella della fine dell’anno scorso.
È possibile che il conflitto commerciale si inasprisca ulteriormente, ma confidiamo che Stati Uniti e Cina adottino un atteggiamento più razionale.
Commento a cura di Frank Häusler, Chief Strategist di Vontobel Asset Management