Per Jean-Claude Juncker è tempo che l’euro diventi lo strumento monetario di una nuova e più sovrana Europa.
La «dedollarizzazione» è un fenomeno avviato, e l’euro potrebbe farsi breccia. Il recente discorso sullo stato dell’Unione europea tenuto dal presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, di fronte al Parlamento di Strasburgo contiene un messaggio di grande importanza geopolitica.
Non lo si può ignorare. «L’euro, ha detto, deve avere un ruolo internazionale. È già usato in vario modo da più di 60 paesi. È tempo che diventi lo strumento monetario di una nuova e più sovrana Europa».
Correttamente ha aggiunto: «È assurdo che l’Europa paghi in dollari l’80% della sua bolletta energetica, cioè circa 300 miliardi di dollari l’anno, quando le nostre importazioni di energia dagli Usa sono pari soltanto al 2% del totale.
È altrettanto assurdo che le imprese europee comprino aeroplani europei pagando in dollari invece che in euro». È una forte sottolineatura.
Certamente si può dire che, durante il suo mandato, Juncker non è stato il miglior pilota dell’Ue, né il più audace e coerente.
Possono, quindi, esserci critiche legittime e giustificate. Tuttavia, con le sue recenti parole lascia un’eredità pesante che il prossimo presidente del governo europeo non può né deve ignorare. Lo stesso dicasi per il futuro Parlamento europeo.
L’euro, rinforzato dai necessari miglioramenti di sistema e sostenuto da una più forte e più integrata economia europea, potrebbe diventare la «leva» per una riforma multipolare del sistema monetario internazionale.
In questo modo affiancherebbe con più efficacia le politiche del gruppo dei paesi Brics per cambiare nel profondo la governance economica e monetaria del mondo, ancora troppo dominata dal dollaro.
I Brics, infatti, tra loro già operano con le rispettive monete nazionali. Sanno, però, che, senza una fattiva alleanza con l’Europa e senza l’euro, vi sono scarse possibilità di modificare il sistema.
Intanto, è da rilevare che i continui conflitti commerciali, combinati con l’unilateralismo monetario della Federal Reserve, rischiano di mettere in ginocchio molte economie emergenti.
Stanno già provocando legittime importanti reazioni in tutti i continenti, accelerando la «dedollarizzazione» dell’economia mondiale.
La Cina, per esempio, oltre al progressivo uso dello yuan in molti accordi commerciali internazionali, opera per bypassare sempre più il dollaro nel settore dell’energia.
La Borsa internazionale di Shanghai ha lanciato future sul greggio denominati in yuan. In solo 6 mesi la quota di affari conclusi in yuan ha raggiunto il 10% del totale.
Persino la più importante banca d’affari americana, la Goldman Sachs, ritiene che si sta verificando un brusco passaggio degli investimenti stranieri dai titoli di stato americani ai titoli cinesi denominati in yuan.
Si calcola che nei prossimi 5 anni saranno collocati titoli cinesi per un valore superiore al trilione di dollari, a discapito ovviamente dei titoli di stato Usa.
Di fatto tutti i paesi, che sono stati colpiti dalle sanzioni di Washington, stanno cercando un’alternativa alla moneta americana.
L’Iran e l’Iraq hanno eliminato il dollaro come valuta principale nel loro commercio bilaterale. Baghdad afferma che intende operare con il rial iraniano, il dinaro iracheno e l’euro.
Nel commercio petrolifero, Teheran sta abbandonando la valuta statunitense per fare i pagamenti internazionali in euro.
Anche l’India paga il petrolio iraniano in euro. All’Iran, suo terzo fornitore di petrolio, New Delhi ha anche proposto di pagare in rupie.
Anche il presidente turco Erdogan ha invitato a rifiutare la valuta americana nelle transazioni commerciali.
La Turchia si appresta a passare ai pagamenti in valuta nazionale con i suoi principali partner commerciali come la Cina, la Russia, l’Iran e l’Ucraina. È un processo oggettivo che prescinde da chi oggi è al governo di questi paesi.
Da parte sua, la Russia nota che il dollaro sta diventando uno strumento di pressione non solo sugli avversari geopolitici, ma anche sui suoi alleati.
Mosca fa sapere che le sue imprese industriali utilizzeranno le valute nazionali per i pagamenti delle forniture alla Turchia.
Nel frattempo, i paesi petroliferi del Golfo stanno discutendo di nuovo l’idea di introdurre una moneta unica.
Indubbiamente è per loro difficile allontanarsi dal dollaro da soli. Ma se decidessero di farlo insieme, l’intera regione potrebbe giocare un ruolo prominente nell’economica mondiale.
Oggi, il maggiore ostacolo alla «dedollarizzazione» è l’instabilità dei cambi valutari. La forte svalutazione delle valute di molti paesi in via di sviluppo rispetto al dollaro e all’euro opera ancora come un potente freno.
Contemporaneamente, però, i comportamenti protezionistici di Washington spingono inevitabilmente il resto del mondo alla ricerca di vie alternative al dollaro.
Recentemente lo ha evidenziato anche il più importante giornale economico della Svizzera, la Neu Zuercher Zeitung.
Di conseguenza, persino gli economisti della Banca Mondiale dichiarano che ormai il processo di «dedollarizzazione» nel mondo è stato avviato e non può essere fermato.
Affermano che ancora oggi il 70% di tutte le transazioni nel commercio mondiale è fatto in dollari, il 20% in euro e il resto è diviso tra le valute asiatiche, in particolare lo yuan cinese.
Finora il commercio di petrolio e di altre materie prime è fatto quasi solo in valuta americana Ma non sarà così a lungo.
L’Europa non può stare alla finestra a guardare. Oggettivamente pensiamo che per l’Europa possa aprirsi “un’autostrada» se c’è adeguata volontà politica.
Commento a cura di Mario Lettieri e Paolo Raimondi