L’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario nel senso che è e può essere prodotta soltanto da un aumento più rapido della quantità di moneta che della produzione.
Il monetarismo, una delle teorie economiche più influenti del 20° secolo, si basa sull’assunto che l’inflazione sia causata da un’eccessiva offerta di denaro. Il suo fondatore, il professore di economia americano Milton Friedman, sembra però smentito dalla storia: le straordinarie misure di liquidità lanciate dalle banche centrali – che, per riprendere un’immagine usata da Friedman stesso, possono essere paragonate a denaro gettato da un elicottero – non hanno avuto finora un influsso tangibile sui livelli dei prezzi. Di fronte alla tendenza apparentemente inarrestabile verso rendimenti sempre più bassi sui titoli di Stato, gli investimenti alternativi guadagnano a nostro avviso di attrattiva.
“L’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario nel senso che è e può essere prodotta soltanto da un aumento più rapido della quantità di moneta che della produzione.” (Premio Nobel Milton Friedman in “La controrivoluzione nella teoria monetaria”, 1970)
Alla luce delle iniezioni di liquidità senza precedenti attuate dalle principali banche centrali negli ultimi anni, bisognerebbe dunque attendersi un’impennata dell’inflazione. Eppure le economie avanzate continuano a denotare una tendenza al ribasso dei prezzi e non danno segno d’inflazione, con la rimarchevole eccezione del settore immobiliare premium, dei vini vintage e dell’arte. Allo stesso tempo le manovre straordinarie delle autorità monetarie spingono i prezzi delle azioni e delle obbligazioni verso livelli destinati a limitare i rendimenti futuri.
In ogni caso, il rapporto tra inflazione, massa monetaria e produzione economica si è spezzato irrevocabilmente agli inizi degli anni ottanta, a soli dieci anni dalla pubblicazione della teoria monetaria di Friedman. Esaminiamo ora i motivi della tendenza al ribasso dei prezzi a lungo termine o del rallentamento dell’inflazione (disinflazione):
La globalizzazione, misurata in base alla crescente quota delle esportazioni mondiali in percentuale del prodotto interno lordo globale (PIL) (vedi grafico 1), è stata un fattore importante in un percorso segnato da due grandi pietre miliari: la caduta del comunismo negli anni novanta e l’adesione della Cina all’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001.
Anche la perdita di influenza dei sindacati e la fine dell’indicizzazione dei salari hanno svolto un ruolo importante.
Le innovazioni tecniche – e in primis Internet – hanno aumentato la produttività del lavoro e consentito la trasparenza dei prezzi su scala mondiale.
Dopo un periodo di scarsità e di incremento dei prezzi, l’offerta di materie prime è cresciuta in misura considerevole e si è tradotta negli ultimi anni in una flessione dei prezzi.
In generale, la pressione a ridurre gli eccessivi livelli di debito, che si sono accumulati sulla scia della grande crisi finanziaria, è inerentemente disinflazionistica.
Inflazione nella fascia bassa della curva
Pur convinti che le forze disinflazionistiche secolari continuino a prevalere, crediamo che alcuni dei fattori summenzionati abbiano perso temporaneamente di vigore. Ciò vale in particolare per la globalizzazione e la produttività del lavoro (entrambi stagnanti), ma anche per i prezzi delle materie prime (la cui discesa si è arrestata).
Grafico 1: la globalizzazione riduce l’inflazione
Fonte: Thomson Reuters Datastream, Vontobel Asset Management
Di conseguenza, le letture dell’inflazione hanno quasi raggiunto il punto di svolta inferiore. Inoltre la deflazione è talvolta considerata più preoccupante dell’inflazione: le banche centrali in Europa e in Giappone, per esempio, sono tuttora fermamente impegnate a spingere i prezzi al rialzo.
Debito svizzero e tedesco troppo caro nella maggior parte degli scenari
Non è nostra intenzione predire la fine del mercato rialzista per i titoli di Stato di alta qualità a lunga scadenza, che sono finora sostenuti dalla flessione dell’inflazione, dall’incessante ricerca di sicurezza e dalle massicce misure di liquidità delle banche centrali. Tuttavia siamo del parere che gli attuali rendimenti offerti dai titoli della Confederazione svizzera (“Eidgenossen”) o dai titoli sovrani tedeschi (“Bund”), non offrano più un ragionevole rapporto rischio-rendimento (vedi grafico 2) – a meno che gli investitori in “Bund” non si aspettino di essere ripagati in (nuovi) marchi tedeschi dopo un eventuale collasso dell’Unione monetaria europea. Di conseguenza abbiamo ridotto a zero la nostra esposizione in titoli di Stato svizzeri e tedeschi e abbiamo mantenuto gli US Treasury come la nostra esposizione preferita nella duration di alta qualità. Per contro abbiamo aumentato la nostra esposizione in strategie alternative liquide destinate a generare rendimenti assoluti non correlati ad azioni e obbligazioni. Mentre manteniamo una discreta esposizione nei mercati azionari e obbligazionari sullo sfondo di un ambiente mondiale ancora favorevole, notiamo che i premi al rischio offerti in questi segmenti sono in calo, complice l’iperattività delle banche centrali. Ciò ci induce a cercare investimenti alternativi.
Grafico 2: i titoli svizzeri e tedeschi denotano rendimenti (appena) positivi solo nel segmento a lungo termine
Fonte: Bloomberg, Vontobel Asset Management
Commento a cura di Christophe Bernard, Chief Strategist di Vontobel